Il pallone racconta: Tarcisio Burgnich

Gli 80 anni della “roccia”

Tarcisio Burgnich ha compiuto 80 anni, li ha festeggiati in famiglia, come sempre. È stato il più grande terzino destro nella storia del calcio italiano, assieme a Claudio Gentile. Terzino inteso come vecchia maniera, in marcatura arcigna.

Tarcisio, ci compila il top 11 dei suoi compagni?
“È difficile, perché negli anni siamo sempre rimasti ad alto livello, negli anni ’60 e ’70, c’era davvero un buon gruppo di giocatori, molto legati alla passione, a differenza di oggi”.

Dove vive?
“A Viareggio, oppure ad Altopascio, sempre in Toscana, in provincia di Lucca. Ho sposato una toscana, Rosalba, oggi 75 anni”.

I figli non sono stati calciatori?
“No, Gualtiero e Gianmarco non sono venuti dietro alla passione del padre”.

Come ha festeggiato?
“In famiglia, come sempre, come abbiamo sempre fatto per le cose che contano. Assieme anche ai 5 nipoti”.

Quale messaggio le ha fatto più piacere, per i suoi 80 anni?
“Ho visto il tweet di Roberto Mancini, mi ha fatto piacere perché dopo tanti anni si è ricordato. Era il 1981 e lo lanciai in Serie A a 16 anni, nel Bologna. Gli auguri erano degli ex miei coetanei o di giocatori che ho allenato”.

L’ultima squadra guidata fu il Pescara, nel 2001, poi cos’ha fatto?
“Mi sono goduto la vita. L’importante è la salute, per davvero, neanche ricordo più l’ultima esperienza in panchina, la memoria inizia a tradire”.

Ci riproviamo. Almeno un giocatore per un ogni settore, fra i suoi compagni prediletti.
“Giuliano Sarti è stato uno dei grandi portieri in assoluto, tatticamente sapeva dove andava il pallone. Come difensore indicherei Giacinto Facchetti, ho dormito più con lui che con mia moglie, dal momento che con il mago Herrera eravamo sempre in ritiro. Facevamo parte di un gruppo rimasto sempre legato e riconoscente”.

Il più grande centrocampista con cui ha giocato?
“Luisito Suarez. Con lui era difficile perdere, quando mancava si avvertiva l’assenza, non a caso perdemmo la finale di Coppa dei Campioni con il Celtic Glasgow, a Lisbona”.

E l’attaccante?
“Come Mario Corso non ce ne sono”.

In chi si rivede?
“Adesso nessuno, perché non c’è più la marcatura a uomo, è tutto a zona. Nella mia epoca mi somigliavano Mario Trebbi, del Milan, e lo juventino Adolfo Gori, proprio con quelle caratteristiche di marcatura a uomo, aggressivi”.

Questa è la nostra chiacchierata, volutamente breve, perché varie interviste sono uscite in questi giorni e vale la pena riprendere vari passaggi. Intanto da “Il Secolo XIX”, il quotidiano della Liguria, nel colloquio con Valerio Arrichiello, con il campione europeo del ’68 e il vicecampione del mondo nel ’70.
“Sto abbastanza bene” - risponde l’ex bandiera dell’Inter – “qualche dolorino c’è, ma è normale, in campo le botte si sono date ma anche prese”.

Chi la soprannominò la roccia?
“Armando Picchi. Nella Spal c’era un suo ex compagno di squadra, un’ala, Novelli. Armando lo aveva avvisato: “Occhio che questo è uno tosto, non ti fa toccare palla”. Poi dopo un contrasto duro, in cui io rimasi in piedi e Novelli finì ko, lo prese in giro: “Te l’avevo detto che è una roccia...”.

La sua qualità migliore?
“La concentrazione, la capacità di non perdere l’uomo. Ma anche con la zona di Vinicio a Napoli, mi sono divertito moltissimo”.

I difensori forti sono sempre meno.
“È venuta meno la passione. Per noi qualsiasi spiazzo, anche sterrato, con la ghiaia per terra, era perfetto per giocare. Pensavamo sempre al pallone e anche in strada imparavi tanto, ti insegnava a combattere. Ora il calcio è visto come un lavoro, i giocatori sono meno continui. E io seguo meno, non mi piace tanto stare a guardare”.

La sua vittoria più bella?
“La Coppa Campioni vinta contro il Real: battere i nostri idoli, come Di Stefano e gli altri, fu la gioia più grande possibile. Eravamo fortissimi, Herrera fu un precursore, severo, innovatore: ha indicato al calcio una nuova via”.

L’immagine di lei che prova a fermare Pelé a Messico ’70 è immortale.
“Pelè è straordinario, il migliore di tutti. Ma quello che mi ha dato creato più problemi fu un suo compagno, l’ala sinistra del Santos, non mi viene il nome (due le alternative possibili: Pepe o Edu ndr) e poi lo slavo Dzajic, nella prima finale dell’Europeo ’68. Ma gli presi le misure e nella ripetizione vincemmo noi”.

Da tecnico non ha vinto come da calciatore.
“Non ho mai allenato grandi squadre costruite per vincere. Io sono taciturno, schivo, per arrivare alle big devi anche saper parlare, venderti bene”.

E poi Il Giornale, con Roberto Gotta.
“Giocavamo con una pallina di stracci” - ricorda Burgnich – “Era finita da poco la guerra, non c'erano quattrini: si faceva un fagotto, lo si riempiva di fieno ed era il nostro pallone. Già la pallina da tennis ce l'avevano solo i benestanti, figuriamoci un pallone vero. Si giocava e si palleggiava con quella, e la passione è nata lì”.
 
È stato anche stopper, perché preferiva la fascia?
“Perché nonostante la marcatura cercavo di avanzare, andavo sempre in area avversaria quando c'erano un calcio d’angolo o un calcio di punizione. Ho sempre avuto voglia di fare risultato, e da centrale dovevo per forza essere più statico”.

Otto gol in 18 stagioni di Serie A e due in 66 partite con la Nazionale, ma il più memorabile in azzurro arrivò proprio così, fu il 2-1 alla Germania, nella semifinale dei Mondiali del 1970, su calcio di punizione di Gianni Rivera.
“Anche quella volta ho seguito la mia mentalità di voler cercare il risultato, l'aveva portata il mago Herrera: voleva che ognuno di noi volesse vincere, tanto come lo voleva lui”.

Allenava la grande Inter: che personaggio ricorda?
“Era la novità, allenatori come lui non se n'erano mai visti. A quei tempi nelle squadre comandavano i vecchi, non gli allenatori, con lui cambiò tutto, il tecnico cominciò a prendere in mano la gestione e gli anziani non ebbero più il potere di fare e disfare. E lui diede delle regole precise: se tu sbagliavi appena appena ti castigava, ti dava le multe, mentre prima non si arrivava mai a questo”.

In Nazionale, invece, Edmondo Fabbri e Ferruccio Valcareggi.
“Erano molto diversi dall’argentino, che da calciatore non aveva avuto un grande passato. Loro avevano giocato molti anni e conoscevano la mentalità del calciatore, c'era più libertà”.

In Nazionale, agli Europei la semifinale contro l'Unione Sovietica vinta grazie al lancio della monetina. Cosa si prova nell’attendere che una partita così venga decisa in quel modo?
“Eh, si aspettava e si aveva anche il cuore sereno e tranquillo, perché avevamo un capitano che come andava là vinceva sicuramente”.

Facchetti.
“Giacinto era il terzino dalla parte opposta, prendeva sempre l'iniziativa con e senza palla, mentre in mezzo a proteggerci c'era Armando Picchi, che aveva il senso della posizione e la velocità per chiudere”.

L'avversario più difficile che ha affrontato?
“Francisco Gento, l'ala sinistra del grande Real Madrid. Era uno che ti puntava e cercava di saltarti, bisognava anticiparlo o stargli molto vicino, perché se aveva un po' di spazio buttava la palla avanti, usciva dalla linea laterale e andava a prenderla, veloce com'era”.

La vittoria più bella?
“Proprio contro il Real, nella finale di Vienna del 1964. Quando metti sotto i tuoi idoli e vinci la Coppa dei Campioni contro la squadra che l'aveva vinta cinque volte ed era stata anche campione del mondo”.

Lo stadio più memorabile?
“Il Santiago Bernabeu faceva una certa impressione, ma San Siro è il massimo, sempre”.
 
Anche con Nicola Cecere, della “Gazzetta dello sport”, Burgnich parla della Jugoslavia.
“Non se ne conosceva nulla” - dice – “c’era Tito, la cortina di ferro sovietica...  Marcai il loro capitano, Dragan Dzajic e mi fece ammattire: un mancino tecnico, veloce, imprevedibile. Ci fece gol, soffrimmo a lungo finché Domenghini nel finale ci portò alla finale bis e li ci pensarono Anastasi e Riva. Ma Dzajic è rimasto l’attaccante più forte che io abbia marcato, peccato che le frontiere fossero chiuse. Peccato anche per lui: avrebbe guadagnato di più…”.

Infine alcuni passaggi da “Il Gazzettino”, il quotidiano del nordest, per la firma di Paolo Francesconi, che ha raccontato il suo essere friulano, di Ruda.
Burgnich, le piace il calcio odierno, lontano anni luce dal suo?
“Lo guardo, non tantissimo, ma lo seguo. È cambiato davvero tutto. Ai miei tempi c'era molta più passione da parte dei giocatori. Oggi c'è troppo di mezzo il quattrino”.
 
Ma anche oggi molti giocatori dimostrano passione e impegno totali.
“È diverso. Noi siamo nati col pallone tra i piedi, c'era solo quello. Non esistevano telefonini o altre distrazioni. Era la passione, il sogno, anche la speranza di un riscatto. I soldi venivano dopo. Non avevamo nemmeno un pallone vero e proprio: si giocava con palle di fieno tenute insieme dalle calze di nylon portate dagli americani. Avere un pallone di cuoio era roba da ricchi”.

Che giocatori di oggi ammira o in che difensori si rivede?
“Non saprei, di bravi ce ne sono tanti. Ma è una questione di spirito diverso”.

È soddisfatto dell’Inter, la squadra del cuore?
“I giocatori non sono male. La differenza la fanno le società. Alla Juve non puoi sgarrare”.

Mondiali del 70, finale persa 4-1 col Brasile. Episodi non svelati?
“Di Italia-Germania è stato detto tutto. La finale: ho sempre sostenuto e sono ancora convinto che se non si fosse giocato a 2.400 metri di altitudine l’avremmo vinta anche se eravamo stanchi. C'era il gruppo, la voglia. Ma le due ore con la Germania ci avevano prosciugato. La mattina della finale dissi al presidente Artemio Franchi che non mi reggevo in piedi dal male alle gambe, troppo dolore. E non ero l'unico. Quando abbiamo preso il gol da Pelè dopo 19 minuti ci siamo spenti, senza più la forza di reagire”.

Vanni Zagnoli

02.05.19