Il pallone racconta: Jair da Costa

Gli 80 anni della “freccia” della Grande Inter

Lo scorso giovedì ha compiuto 80 anni Jair da Costa, la freccia nera della grande Inter del mago Herrera. Speravamo di intervistarlo, per questo abbiamo fatto tardi, e allora lo raccontiamo con quanto troviamo online.

Intanto dal sito dell’Inter. “Guardatela, questa foto. Non c'è momento più crudele e dolce allo stesso momento, per chi vive il calcio. Un prato zuppo di acqua e fango, uno stadio pieno di gente, una notte di stelle sul campo e di nuvole in cielo a rovesciare sopra Milano una pioggia cattiva: benaugurante? A giudicare dall'esito, sì. Questa foto è stata scattata il 27 maggio 1965. Jair da Costa doveva ancora compiere 25 anni. È quel ragazzone sdraiato sul prato bagnato di San Siro: ha appena calciato con il destro, finendo per terra. La testa sollevata a seguire la traiettoria di un pallone che Costa Pereira, portiere del Benfica, si appresta a parare comodamente. Si accovaccia, Costa, ma il pallone gli scivola dalle mani, prosegue in mezzo alle gambe, finisce in porta. GOL!”.
Jair regalò così la seconda Coppa dei Campioni consecutiva all'Inter. La prima arrivò a Vienna, contro il Real Madrid, il bis a Milano, San Siro, davanti ai portoghesi di Eusebio, con: Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Peirò, Mazzola, Suarez, Corso.
Oggi, insomma, sui siti di alcune società sportive ci sono articoli veri e propri, emozionanti.
Solo in coppa, peraltro, giocavano i tre stranieri, gli spagnoli Peirò e Suarez, più quel ragazzone così veloce, in campionato se ne potevano impiegare due forestieri e l’escluso in genere era Peirò, a beneficio di Milani o Bettini o di Beniamino Di Giacomo. Finché arrivò Domenghini, come falso 9.
Jair, invece, giunse nel 1962 da San Paolo, si stupì quando vide la neve. Avrebbe lasciato l'Inter dieci anni più tardi: 260 partite, 69 gol e il palmares infinito, con 4 scudetti, 2 coppe dei Campioni e 2 Intercontinentali.
Si aggiudicò il Mondiale nel 1962, in Cile, era nella rosa del Brasile, ma non scese mai in campo, avendo nel suo ruolo di esterno destro Garrincha, il più bravo di tutti, così Jair si limitò a una presenza in tutto. Garrincha trasportava sul campo l’armonia delle melodie di Ipanema, i suoni languidi del popolo carioca.

La sua riserva in Nazionale era cresciuta nella Portoguesa, venne bocciata dagli osservatori del Milan per quel fisico troppo gracile. Dal Brasile, Jair da Costa si è raccontato a Mauricio Cannone, su La Gazzetta dello Sport.
“La mia Inter era uno squadrone. Giocava un bel calcio, pulito. Helenio Herrera era meraviglioso, sapeva chiacchierare nel modo giusto con i giocatori, conosceva il calcio sia dal punto di vista umano che atletico. Ci faceva giocare con lo stile italiano, in contropiede. Gli piaceva il calcio ben giocato, con uscite rapide dalla difesa all’attacco, in impostazione Suárez e Corso lanciavano, tutto di prima”.
Un altro passaggio riguarda il presidente dell’epoca, Angelo Moratti. “Ci trattava come figli, invitava i giocatori alle feste a casa sua e faceva tutto quello che gli chiedevamo. Il figlio Massimo era un ragazzo, quando poi fu presidente dell’Inter mi invitò a vedere la finale di Champions, a Madrid contro il Bayern, nel 2010. Allora già mi facevano male le gambe, quindi preferii vederla in tv”.

Il gol in finale è ricordato da Jair, sulla rosea. “Diedi il pallone a Mazzola, lui scambiò con un altro compagno, poi scattai, scivolai, caddi ma anche così tirai in porta e il pallone passò tra le gambe del portiere Costa. Ero veloce, dribblatore. Pure Mazzola era rapido: in uno spazio di dieci metri in area dribblava e tirava in porta. Con tutti i palloni che gli arrivavano, metteva sempre a dura prova la difesa avversaria”.
Jair sta bene e segue l’Inter. “Conoscevo Lukaku dal Manchester United, è un grande centravanti, duro, difficile da marcare, dalla buona taglia fisica. E Handanovic è un ottimo portiere”.

Raccontiamo il brasiliano con Aristide Guarneri, lo stopper di quell’Inter. “Quando arrivò” - dice l’ex difensore di Cremona – “sembrava un uccellino e fu Giacinto Facchetti a prenderlo sotto la propria ala, facendolo sentire come a casa. A 22 anni, si mise a saltare in mezzo alla neve, per la gioia di scoprirla. Era un tipo freddoloso, da buon sudamericano, in inverno si abbracciava ai termosifoni”.
Aveva una fissa, all’epoca. “Voleva segnare dalla bandierina. Spesso calciava in porta, anziché giocarla in mezzo, quando io andavo a saltare. È un ragazzo buono come il pane, disponibile. Mamma mia com’era veloce” - sorride Guarneri – “Andava persino fuori dal campo, per riprendersi la palla, se l’allungava con i lanci di Suarez e poi la giocava sulla linea, magari di prima o con stop a seguire. Fece una stagione alla Roma, nel ’67’-68 e ritornò all’Inter, come capitò anche a me, dal Bologna”.

A 32 anni, Jair rientrò in Brasile, per due stagioni nel Santos, dove fu compagno di Pelè, per poi chiudere a 36, in Canada, al Windsor Stars.
Una bella intervista all’ex ala destra sudamericana uscì nel 2009, sul Corriere dello Sport, a firma di Pietro Cabras, che ambienta bene dove vive.
“Un’insegna rettangolare spunta dal muro di uno dei primi palazzi di Avenida Dyonisia Alves Barreto, dalla parte di Avenida dos Autonomistas, la grande arteria che divide in due il centro di Osasco, stato di San Paolo. ‘Esporte Center Jair da Costa’, c’è scritto. Ma non c’è solo calcio, dentro. È un posto dove ritrovarsi a fare due chiacchiere, a giocare, a mangiare qualcosa, a bere in compagnia” - spiega Jair da Costa. Una struttura, il suo centro sportivo, in cui Jair accoglie chi voglia giocare a pallone, “sette contro sette, ci sono ragazzi ma anche vecchietti come me”, e sono partite accesissime, che si concludono spesso con una bella bevuta. Ma lei gioca ancora, Jair? “No, le mie ginocchia non me lo consentono più”. Quel dolore ormai insopportabile gli fece lasciare il pallone, nel 1978, da allora ha messo su una serie di attività: prima una firma di abbigliamento sportivo con il suo nome, dal 1990 questo centro ricreativo a trecento metri da casa, nella città fondata nell’Ottocento dal piemontese Antonio Agù; e ancora una scuola calcio alla periferia di San Paolo, con l’aiuto del figlio Mauricio.
Non sa stare fermo, Jair, ora come allora: da ragazzino lavorava in fabbrica, e la sera andava a giocare, a seguire il pallone con le sue gambe agili. Quando lo videro nella Portuguesa dos Desportos di Canindé, lo paragonarono subito a Garrincha, e nel 1962 Jair finì dritto nella Seleçao che avrebbe vinto il secondo Mondiale. Lui, riserva proprio di Garrincha, non giocò, ma durante Brasile-Spagna a Viña del Mar incrociò Helenio Herrera, allora tecnico della Spagna. Pochi mesi dopo i due si ritrovarono a Milano, ma non poté giocare subito: troppi stranieri, nonostante una nonna originaria del Polesine, gli fu difficile dimostrare le radici italiane e dovette aspettare l'autunno, che dall'Inter andasse via Gerald Hitchens detto Pel di Carota”.
Assieme a Canè, del Napoli, Jair fu il primo giocatore di colore nel nostro campionato. “C’era più curiosità che razzismo”.
All’Inter segnalò i giocatori che riteneva più interessanti, osservatore speciale e gradito. “Vedo molto calcio in tv, seguo con Sky anche quello italiano”.
È circondato dai quattro figli (Carlos, Mauricio, Fernando e Rogerio) e da tre nipoti. Poi spegne la tv ed esce di casa, nonno Jair dai capelli ormai bianchi e lo sguardo allegro di sempre, e con le ginocchia che cigolano raggiunge Avenida Dyonisia Alves Barreto, a vedere come si comporta la squadra che porta il suo nome “Gli amici di Jair”. E a loro, a chi lo ascolta incantato, spiega che nel calcio il segreto è crederci sempre, anche quando sembra impossibile. Come quel giorno del 1965 quando tirò un pallone da lontanissimo sotto il diluvio e sopra le pozzanghere di San Siro, e il portiere Costa Pereira del Benfica non lo fermò, e fu Coppa Campioni”.

Così nacque uno dei miti della Beneamata, citato al cinema da Giovanni Storti (nel trio comico con Aldo e Giacomo), in “Tre uomini e una gamba” e ne “Il cosmo sul comò”. Del resto, nelle due Intercontinentali Jair contribuì proprio a portare il mondo sul comò milanese.

Vanni Zagnoli

15.07.20