Il pallone racconta: Antonello Cuccureddu

I 70 anni dell'ex terzino di Juve e Fiorentina

Antonello Cuccureddu ha compiuto 70 anni, venerdì, è stato celebrato dall’Unione Sarda, il quotidiano isolano di riferimento e da Il Giornale, sempre da Elia Pagnoni, la firma che ha l’abitudine di appuntarsi i compleanni di prestigio di campioni e personaggi. Prima di proporre la nostra chiacchierata telefonica, riprendiamo qui proprio il colloquio fra il Giornale e il famoso terzino.

“Con quel cognome atipico” - scrive Pagnoni – “poteva essere un basco e invece è un sardo di Alghero, terra comunque catalana. Un cognome che evocava uccelli o montagne, ma che per il popolo bianconero è soprattutto sinonimo di una delle stagioni più felici, quella che portò la Juve a gettare le basi dello squadrone che dominò il calcio con Trapattoni al comando. E Cuccureddu in quella Juve era tutto, nel senso che partì mezzala per diventare terzino, mediano, ala, insomma per giocare dove c’era bisogno. Dodici anni e 438 partite nella Juve, che poi vogliono dire sei scudetti e una Coppa Uefa, per quello che può essere considerato il primo colpo dell’era Boniperti, nominato ad nel novembre del ‘69, appena in tempo per prendere Cuccu dal Brescia nel mercato autunnale”.
“Probabilmente sì” - si inserisce l’ex calciatore – “fui il suo primo acquisto. E dopo di me arrivarono Gentile, Spinosi, Capello, Causio, Bettega. Io e Furino eravamo i più giovani di quella Juve in cui c’erano ancora Salvadore, Del Sol, Castano, Leoncini, Haller, insomma tutti quelli che erano stati per anni le mie figurine. Quando sono arrivato a Torino pensavo di sognare, mi ricordo che ero così emozionato che mi vergognavo ad entrare in quello spogliatoio, a mettere quella maglia, a vedere dal vivo quei campioni. Ma sa, avevo diciotto anni”.
Il suo debutto fu incredibile.
“Sì, proprio a Cagliari, nella mia Sardegna. Contro il grande Cagliari di Riva che era in testa alla classifica e avrebbe vinto lo scudetto, mentre la Juve era in un momento difficile, aveva appena cambiato allenatore, mandarono via Carniglia e affidarono la squadra a Rabitti. Mi fece giocare da mezzala e a 3 minuti dalla fine segnai il gol del pari”.
Insomma, il sogno continuava. Ma qual è stata la sua partita indimenticabile?
“Beh, la prima di sicuro. Però anche quella del gol scudetto nel ‘73. Giocavamo con la Roma all’Olimpico e il Milan stava perdendo a Verona: anche noi eravamo sotto, ma Altafini pareggiò e poi io segnai il gol del 2-1”.
E quella da dimenticare?
“La finale di Coppa Campioni a Belgrado, contro l’Ajax. Una partita che purtroppo io nemmeno giocai perché avevano fatto delle scelte tattiche che poi si dimostrarono un errore”.
Qual è l’allenatore a cui deve di più?
“Ricordo Ercole Rabitti come un padre”.
Qui siamo noi a chiedere spiegazioni a Cuccureddu, perché Rabitti subentrò al Toro, nell’80-’81 e magari non tutti lo ricordano alla Juve.
“Fu esonerato l’argentino Carniglia e allora Boniperti prese dal settore giovanile Rabitti. Prima di arrivare al Torino, era stato per molto tempo alla Juve”.
Qui riprendiamo con la risposta a Il Giornale.
“Parola e Vycpalek mi hanno fatto crescere molto. Poi, certo, Trapattoni. Era più giovane rispetto agli altri e ti faceva sentire più a tuo agio, era uno con cui si parlava tanto. Ecco, tutti i giocatori, anche adesso, avrebbero bisogno di un allenatore così, uno con cui si aveva sempre un buon rapporto”.
Con Bearzot, invece, una stagione a due facce. Protagonista in Argentina nel ‘78, fuori dal giro azzurro nell’82.
“Sì, forse dopo il ‘78 avevano deciso di tenere in Nazionale i più giovani. E poi io ero passato dalla Juve alla Fiorentina e nell’82 avevo anche avuto un infortunio. Anche se penso di aver fatto le mie stagioni migliori a 30-31 anni”.
Secondo molti la Nazionale del ‘78 era addirittura più forte dei quella mondiale dell’82.
“Dicono. Certo anche quella fece un grande Mondiale, poi fummo sfortunati nella partita con l’Olanda che valeva la finale. E in quella Nazionale eravamo nove juventini, una cosa ormai irripetibile. Come il fatto di vincere una coppa europea, la prima Uefa della Juve contro l’Athletic Bilbao, con una squadra interamente italiana”.
La Fiorentina è stata l’altra sua squadra.
“Tre anni buonissimi. E sfiorammo anche lo scudetto, vinto proprio dalla Juve tra tante polemiche. Da cui io mi tenni alla larga”.
Il suo idolo da ragazzo?
“Sivori. Io da ragazzo cercavo di imitarlo, giocavo con i calzettoni abbassati come lui. Poi, pensi, ho esordito in Serie A proprio con la sua maglia, la numero 10. Segnando pure. È per questo che io dico sempre ai miei ragazzi della scuola calcio, qui ad Alghero, che se uno ha un sogno deve fare di tutto per coltivarlo”.
Il suo compagno ideale?
“Forse Gentile, con cui condividevo l’alloggio da giovane”.
Il suo giocatore preferito nella Juve di oggi?
“Quelli che lottano, come Chiellini. Ma non ho preferenze: direi magari Dybala, ma deve trovare continuità. Cristiano Ronaldo sarebbe scontato”.
Beh, lì siamo ai livelli di Pelè.
“Calma con certi paragoni”.
Che cosa avrebbe voluto ai suoi tempi del calcio di oggi?
“Forse il fatto di giocare a zona. Credo che ci saremmo proprio divertiti. Soprattutto perché allora i terzini non scendevano mai sulle fasce: a parte Facchetti nell’Inter, io e Gentile siamo stati dei precursori”.

La nostra chiacchierata con Cuccureddu è di venerdì sera, tardi.
Antonello, come ha festeggiato?
“In campo, con i ragazzi, nel centro sportivo, ad Alghero. E poi in famiglia”.
Con chi?
“I figli: Luca, 43 anni, che fa un po’ di tutto, adesso inizia ad allenare, è mio aiutante, qui alla scuola calcio, ha girato un po’ di squadre. E Antonella, collabora con aziende, ha 42 anni e mi ha dato due nipotine: Desirèe, 14 anni, e Alessandra 8. E poi naturalmente con mia moglie Ivana, 70 anni, siamo sposati dal ’75, mannaggia come passa il tempo…”.
Riprendiamo con la sua carriera.
“La Rinascita fu la squadra di quando ero bambino, poi la Fertilia, in seconda categoria, vincemmo il campionato. Quindi il passaggio alla Torres, in Serie C. Successivamente il Brescia, con Vescovi e Gigi De Paoli, arrivati dalla Juve. Fummo promossi in A e lì arrivò Gigi Simoni, nel frattempo però io ero già andato a Torino”.
Dopo anche la Fiorentina, avrebbe chiuso nel Novara, a 35 anni.
“Era in Serie C, fu proprio l’addio al calcio giocato”.
Con la Nazionale, chiuse presto, proprio nel ’78.
“Già, all’epoca la longevità era inferiore, ai massimi livelli”.
Poi la carriera da tecnico.
“Cinque anni con la Primavera della Juve, poi l’Acireale e la Ternana, in B. Portai il Crotone in serie B e andai in Libia, a Tripoli, dal presidente Gheddafi, juventino, fu un campionato molto particolare. Rientrai in Italia in Serie C1, ad Avellino, andai via che eravamo quasi ai playoff. Quindi la Torres, ai playoff in C1”.
Peccato che la squadra di Sassari non si fosse iscritta al campionato successivo.
“E allora a novembre subentrai a Grosseto, voluto dal presidente Camilli, in C1, quella squadra era allenata da Allegri. Esonerato lui, fu io a portarla in Serie B. Lasciai perché ebbi un’offerta dalla A, era quasi fatta, oggi non faccio il nome. Altrimenti avrei continuato in maremma e chissà come sarebbe andata la carriera. Mi ritrovai allora ad allenare il Perugia in C1, portato ai playoff”.
Quindi Pescara, in C1, un buon campionato.
“Venni congedato a metà della stagione successiva, spesso si sono verificati casini societari, ma in genere ho sempre portato le squadre alla promozione in B o ai playoff”.
Dal 2010 al ’13 è rimasto fermo, poi fece il dt all’Alghero.
“Ero tra amici, adesso la squadra è in terza categoria, credo”.
Ultima panchina il Grosseto nel ’13-’14 in C1.
“Ora guido la scuola calcio del mio paese, sono al secondo anno, rientrato dopo avere sempre vissuto a Torino. Mi spostai in Piemonte che era già nata mia figlia, poi andai a Grosseto”.
Negli anni ’60, Alghero ebbe persino un campione del mondo dei pesi leggeri, di pugilato.
“Salvatore Burruni, qui è ancora popolare. Siamo gemellati con la Catalunya, si parla in maniera particolare, loro capiscono il nostro dialetto, che è una lingua”.
Siete in 44mila algheresi.
“E lo stadio si chiama Cuccureddu, dal 1969. Ci sono due strutture comunali, affiancate, noi siamo gestori come società. Un impianto è dedicato a mio padre Pino, il secondo proprio a me”.
Ci dipinge il top 11 della sua carriera, da calciatore?
“Basta prendere gli undici del 1976-77, vincitore del primo trofeo internazionale, la Coppa Uefa, a Bilbao”.
Fra l’altro ha indossato molti numeri di maglia, quando ancora erano dall’1 all’11.
“Iniziai come centrocampista, l’esordio fu proprio con il 10 e feci anche gol”.
Segnò la bellezza di 39 reti, complessivamente.
“Anche perché calciavo punizioni e rigori, oltre ad avere giocato a centrocampo, per anni”.
In chi si rivede?
“Nei giocatori eclettici, polivalenti, ognuno con le proprie caratteristiche. Non esistevano terzini che marcavano e crossavano, siamo stati noi i precursori, ovvero io e Gentile, poi Cabrini. Soprattutto a destra, i marcatori sino a metà anni ’70 erano fissi. Ci saremmo divertiti di più, con la zona”.
Quanto deve a Giampiero Boniperti?
“Tanto perché mi volle e mi fece crescere, a 20 anni. Figuriamoci, era come un padre”.
Da allenatore non meritava qualcosa di più?
“Per quanto ho fatto sì, a volte si fatica. O sei lo yesman o… Certo non volevo creare problemi. E neanche adesso rivangando il passato”.

Vanni Zagnoli

07.10.19