Il pallone racconta: Giovanni Trapattoni

Gli 80 anni del Trap

Compie 80 anni Giovanni Trapattoni e adesso non spera più in panchine, ha smesso per davvero. L’ultima è stata l’Irlanda, dal 2008 al 2013, con quel Mondiale che avrebbe meritato, nel 2010 il famoso fallo di mano di Thierry Henry glielo impedì.
Ha vinto ovunque, in Germania, in Portogallo e in Irlanda, l’unico neo è stato al Cagliari, quando si dimise e fu il presidente Cellino a volergli evitare l’onta dell’esonero. Il Trap è stato un grande interprete del calcio all’italiana, difesa e contropiede. “Ma non ero un difensivista” - racconta – “tant’è che le mie squadre hanno spesso avuto la miglior difesa e il miglior attacco”.

Sul Corriere della Sera, Mario Sconcerti ricorda aneddoti curiosi. “Quando andava al ristorante, non amava i piatti troppo ricchi né essere lui a sfoltirli («non si butta via il cibo»), lo faceva fare ai camerieri. Nel calcio, nella vita, è stato questo, non un risparmiatore, ma uno che dava importanza a quello che aveva nel piatto”.
“Trapattoni è cresciuto in questo vento, attaccare quando serve in tanti, difendersi quando serve in di più. Ma non farne uno scopo, né di una cosa né dell’altra. Il calcio è capire il momento, l’avversario. Se sai abbinare le intuizioni diventa facile”.
“Il Trap ha sempre giocato con due punte vere e un fantasista. La sua prima Juve era formidabile: Causio-Boninsegna-Bettega davanti, poi Furino-Tardelli-Benetti alle spalle. Ma è stato il Trap per primo a cercare i terzini che attaccavano da entrambi i lati: Cuccureddu, poi Gentile e Cabrini. Il suo calcio tradotto in schemi era un 4-3-3- o un 4-3-1-2 con i terzini molto disposti ad attaccare. Lo hanno anche chiamato zona mista”.
“Una volta” - aggiunge Sconcerti – “mi disse che la vita per lui era stata una scommessa che aveva vinto e non si stancava mai di riscuotere. Gli avevo chiesto di scrivere il racconto di questa vita, aveva già più di 70 anni. Mi disse che non capivo. Lui non aspettava una memoria, aspettava una squadra. Non era mai finita. È stato un contadino senza terra, juventino sempre ma con tante storie, ognuna una bandiera. Confusionario lucido, grande pubblicitario di se stesso forse solo perché vero, perché sincero”.

I suoi svarioni lessicali l’hanno fatto passare alla storia. Gli scappò una mezza bestemmia in diretta su Rai1, nel 2016, il discorso che deve rimanere circonciso fra noi. “Giocatori con caratteristiche simili si eludono a vicenda e diventa poi anche difficile proporsi in emozione. Il propagandarsi o l’essere il protagonista comunque sulla base quotidiana dei mezzi di comunicazione è un’esigenza che molti hanno ma che è altamente inflazionistica”.
Quando era al Bayern sbottò: “Was erlaubt sich ein Strunz?, come si permette uno Strunz? Era così onomatopeico che suonava benissimo.

Su Repubblica, l’intervista di Maurizio Crosetti, la firma che l’ha seguito a Torino. Qualche brano.
Una "definizione del cuore”, per Milan, Juve e Inter.
“Milan è la prima famiglia, il club che mi ha fatto realizzare il sogno. Senza Milan la mia storia sarebbe stata indubbiamente differente. Juve: la lunga storia d’amore, un gruppo eccezionale che mi ha permesso di affermarmi come allenatore. Inter: una inarrestabile emozione, la squadra con cui cimentarmi per capire se i miei successi fossero legati soltanto alla Juve. Facendo un paragone con la vita, il Milan è stato l’adolescenza, la Juve il matrimonio, l’Inter il cambiamento della mezza età”.

Le ha dato più dolore Magath, giustiziere della Juve nella finale di Coppa Campioni ’83 con l’Amburgo, o Byron Moreno, l’arbitro di Italia-Corea del Sud?
“Decisamente Moreno. Perché quello che è accaduto al Mondiale 2002 ha avuto origine dall’arbitro e non dall’avversario. E dall’arbitro ci si aspetta un comportamento super partes. Lui ha commesso una grande ingiustizia e ha colpito tutta l’Italia. Se proprio dovesse esserci una partita che rigiocherei, sarebbe Italia-Corea. Per avere un arbitro diverso”.

Il calcio può ancora esprimere qualcosa di nuovo?
“Il calcio è uno di quei classici che non tramontano mai, un po’ come i libri e la musica. Bisogna vedere come vengono interpretati con la tecnologia e le conoscenze del presente. Oggi ognuno ha accesso ad un’infinità di informazioni, di dati. Limitarsi a raccoglierli e catalogarli non è minimamente sufficiente”.

Una delle migliori Nazionali azzurre di sempre, da Argentina ’78 a Spagna ’82, ha avuto fortemente l’impronta di Trapattoni e di quella sua Juventus: cosa aveva di speciale?
“Non era solo una squadra, ma un gruppo eccezionale, affiatato, che aveva trovato il suo equilibrio strutturale dentro e fuori dal campo. Ognuno era complementare ai suoi compagni. Ma il merito non lo reputo assolutamente come mio, è di Enzo Bearzot, l’uomo che è riuscito ad unire alla perfezione quel gruppo, come fosse una famiglia, infischiandosene delle critiche”.

Ottanta è un numero grande e rotondo. Cosa significa?
“I ricordi sono tanti e ormai devo ammettere che iniziano a confondersi fra di loro. Alcune volte è come se mi chiamassero e mi incitassero a guardare indietro, a soffermarmi nel passato per riviverli. Mi succede spesso nei sogni, dove mi ritrovo in mezzo allo stadio come giocatore o allenatore. Sono importanti ma non devono delimitare la vita nel presente e nel futuro. Non potevo sperare di meglio e mi considero molto fortunato per il percorso di calciatore e allenatore, uomo, marito, padre e nonno. Sono credente, ringrazio Dio per questa vita che mi ha donato. Per la partita che mi resta da giocare io non me la sento di chiedere proprio niente. Ho già avuto tantissimo. Diciamo che è come se i due tempi regolamentari si fossero conclusi. Ora inizia il golden goal e sicuramente non sono uno che si arrende”.

Ritorniamo a Il Corriere della Sera, per l’intervista di Gaia Piccardi e Daniele Dallera, ambientata proprio a casa.
Viale dei Tigli, Cusano Milanino. Al campanello del Trap, alla vigilia dei suoi gloriosi 80 anni, risponde un giovanotto con gli stessi occhi chiari e vivaci. “Sono Riccardo, il nipote di Giovanni”. È a lui, figlio della figlia Alessandra, che l’uomo dei mondi ha affidato le relazioni pubbliche in questa stagione della vita in cui ha scelto di fare il nonno.
Dal settembre 2013, chiuso con l’Irlanda, non ha più allenato: perché?
“Perché le proposte che mi arrivavano erano da Paesi molto lontani e mia moglie non era d’accordo”.
A proposito: ci racconta il primo incontro con Paola Miceli, all’Olimpiade 1960?
“Tutto iniziò con un bicchiere di vino nella cantina dei nonni di Paola. Fu amore a prima vista, ma eravamo giovani e timidi e ci volle l’aiuto dei miei compagni per farci coraggio. 59 anni fa! L’inizio di una splendida avventura. Devo dire che il tempo, di fianco a quella bellissima ragazza, è volato”.
La più grande virtù della signora Paola?
“La pazienza di avermi sopportato e supportato in ogni mio spostamento. Senza di lei non avrei raggiunto la maggior parte dei miei successi”.
Paola è stata la sua vice più valida, quindi.
“Direi proprio di sì. È lei che mi ha sempre tenuto con i piedi per terra”.
L’avvocato Gianni Agnelli alla Juve era solito chiamare all’alba: qual è la telefonata, tra tante, che ricorda con più vividezza?
“Era il 1993 e in quella telefonata l’Avvocato mi annunciava il suo ritiro e il passaggio del testimone al fratello Umberto. Quel messaggio indicava la fine del ciclo che avevamo costruito insieme ad Agnelli e Boniperti”.

Bello anche l’articolo di Fabio Monti su Il Cittadino, il quotidiano di Monza e Brianza.
“A 10 anni, Trapattoni sognava di diventare un calciatore; a 20, era a metà strada tra la prima volta con il Milan in gare ufficiali (29 giugno 1958, 4-1 al Como) e l’esordio in A (con febbre, 24 gennaio 1960, 3-0 alla Spal); a 30, era prossimo a vincere la sua seconda Coppa dei campioni in rossonero (4-1 all’Ajax); a 40, sulla panchina della Juve, con due scudetti e una Coppa Uefa già in bacheca, era sul punto di conquistare la Coppa Italia; a 50, eccolo di corsa verso lo scudetto dei record con l’Inter (58 punti); a 60, sognava ancora il titolo a Firenze; a 70, si preparava a pareggiare con l’Italia nelle qualificazioni al Mondiale 2010, da c.t. dell’Irlanda.
A 80 anni, dopo il veto assoluto a tornare in panchina da parte della signora Paola, sposata nel 1964, è sbarcato sui social e ha pure un proprio sito internet (www.iltrap.it), perché «l’opportunità dell’uomo è il futuro».
 
E lì, osserviamo noi, torniamo a Riccardo, che scrive per conto suo. E il Trap resterà sempre il Trap, unico. Del resto nessuno ha vinto i suoi 7 scudetti.

Vanni Zagnoli

18.03.19