Il Pallone racconta: Bruno Nicolè

Un ricordo dell'ex ala dal libro di Pino Lazzaro "Nella fossa dei leoni" - Ediciclo

NICOLE’ BRUNO
nato a Padova il 24 febbraio 1940. Attaccante.
In prima squadra ha giocato nel Padova nella stagione 56/57 (A), totalizzando 12 presenze e 2 gol. Ha giocato nella Juventus (6 stagioni), Mantova, Roma, Sampdoria ed Alessandria. 8 partite con la Nazionale. Ha smesso a 28 anni.

Al provino col Padova ci andai in bicicletta. Io ero della Sacra Famiglia, in quel patronato giocavo a pallone. Avevo 14 anni, c’erano Tansini ed Alfonsi al Monti, erano loro che facevano i provini. M’hanno preso ed in cambio alla Sacra Famiglia hanno dato un po’ di palloni. A 15 anni sono stato poi convocato per la nazionale juniores, c’erano Giacomini, Bolchi, Fascetti. Ma ero troppo giovane, si doveva andare in Ungheria; l’anno dopo ancora nazionale juniores, stavolta in Spagna ed esordio in serie A, a 16 anni!

Il mio ricordo personale con l’Appiani era cominciato comunque molto prima, quando avevo 8-9 anni. Era mio zio che mi portava a vedere le partite, la prima è stata col Bologna, il Padova vinse per 2 a 0, con loro c’erano Giorcelli in porta, poi Pilmark, Cappello. Mio zio andava in gradinata, a me piaceva andare dietro la porta, dalla parte del Monti, vicino a dove uscivano. Ricordo l’allenatore Serantoni che si alzava e faceva tutto il giro del campo, allora si poteva. Ricordo il Grande Torino, quel 4 a 4, il gesto di Mazzola che ai compagni disse che era tempo di darsi una mossa, i due gol di Checchetti. Mi ricordo della Juve con Parola, Boniperti, Martino, Hansen e Praest e ricordo le figurine, belle, che c’erano a quel tempo dei calciatori. Al lunedì andavo da Cavalca a vedere le foto che faceva Giordani, guardavo le facce, le foto delle azioni e stavo lì, ad immaginare. I miei avevano l’edicola dei giornali a Porta Molino, ne leggevo tanti, c’era Calcio Illustrato, le vignette di Silva... altro che moviola! Se potevo, mi piaceva arrivare per tempo allo stadio, anche un’ora prima. Mi piaceva l’atmosfera, leggevo il giornale, le formazioni, la classifica, aspettavo che i calciatori uscissero dalla porta del sottopassaggio.

Tansini era un gran signore, un maestro. Sempre in coppia con Alfonsi. L’uno più immediato e semplice, l’altro un “professore”. Qualche volta chiamavano noi ragazzi per allenarsi con loro, fare la partitina del giovedì, ricordo che portavo a spasso Azzini che bestemmiava come un turco. Noi ragazzi giocavamo prima del Padova, capitava ci fossero 4-5000 persone ed è come fossero state 100.000 per noi. Dal patronato all’Appiani! Mi piaceva quell’erba, mi piaceva il verde; era tenuto come una chiesa, lo tosavano, gli davano l’acqua e io lo andavo a vedere dal buco della serratura, dal cortile lì fuori degli spogliatoi. Ci ho giocato poi e in carriera ho incontrato i più grandi di quei tempi, da Charles a Pelè, ma per me il vero fascino del calcio l’ho avvertito da bambino, quando avevo 9-10 anni, dentro l’Appiani. Con la Juventus siamo stati i primi a vincere col Real Madrid, c’erano 120.000 persone al Bernabeu; poi San Siro e tutti i più grandi stadi d’Europa ma ancora una volta torno all’Appiani, al suo fascino, a quel calcio che per me, allora ragazzino, era speciale, era poesia. La prima volta che ho visto l’Euganeo, da lontano, non sapevo se era uno stadio o un carcere... spero che i padovani facciano qualcosa (e la dovevano fare anche prima) per l’Appiani.

A Torino ora stanno cercando di fare qualcosa per il Filadelfia, altro stadio dentro la città, perché lo stesso non si fa anche a Padova? Certo che facevano più punti all’Appiani, è chiaro, con quell’atmosfera, è proprio vero come dice Scagnellato che a volte capitava di sentire battere il cuore della gradinata...

I “panzer” mi hanno trattato bene, mi hanno aiutato. Io che li vedevo da fuori pensavo fossero cattivi, chissà come mi avrebbero trattato ma ho scoperto una bellissima atmosfera. Già nella preparazione ad Asolo mi sono accorto che c’era una bella aria. Rocco e Piacentini formavano una coppia tutta speciale, una battuta dietro l’altra. Ricordo in particolare la simpatia di Mari e poi le passeggiate piano piano dalla sede, allora in centro, all’Appiani per le partite. I primi gol, avevo 16 anni, in serie A col Genoa e la Juve, mi hanno aspettato fuori, m’hanno portato in trionfo. Avevo le figurine di quei campioni ed ora ci giocavo assieme, non mi vedevo comunque come loro. Ricordo ancora, anni prima, quando capitava lì in centro di veder passeggiare Vitali e Adcock. Portavano a spasso un cane e noi li guardavamo passare, tutti fermi, tutti zitti. Erano eleganti, belli, mi sembravano degli dei.

Certo che sono contento di avere giocato al calcio. Poteva magari essere diverso e meglio ma il fatto è che a 21 avevo già vinto tre scudetti ed ero capitano della Nazionale. E’ vero, ho smesso a 28 anni ma è anche vero che ho cominciato a 16 e dunque pure io, come tanti, ho giocato 12 anni. Potevo magari segnare un’epoca ma è andata diversamente. E’ stata dura l’inizio, i primi anni. Ricordo che di notte mi sognavo di San Siro, è stato difficile trovare un equilibrio, c’è voluto un lungo lavoro interiore. Ho trovato la strada della scuola, se avessi scoperto prima l’Isef forse sarebbe stato più semplice. Durante gli anni degli scudetti frequentavo le serali, c’era chi mi prendeva in giro perché nei ritiri avevo i libri in mano: avevo 28 anni quando ho preso il diploma di ragioniere.

28.11.19