IL PALLONE RACCONTA

Joaquin Peirò

Muore Joaquin Peirò, a 84 anni, è stato uno dei miti dell’Inter leggendaria. L’undici si declinava a memoria: Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Peirò, Luis Suarez, Corso. Allenatore, naturalmente, Helenio Herrera.

Qui sarebbe troppo facile ricordarlo con una telefonata a Tarcisio Burgnich, la roccia, o a Gianfelice Facchetti, il figlio di Giacinto, attore di teatro. O a Sandro Mazzola, Mariolino Corso o Luisito Suarez. La vera sfida sarebbe raccontare Bedin e Guarnieri, i meno memorabili di questo undici dei sogni, ci proveremo.

Allora come spesso facciamo selezioniamo gli articoli di ricordi usciti in queste ore, coccodrilli, si diceva una volta, ma adesso usano solo in poche testate, poichè con il web non serve tanto tempo per preparare un ritratto corto, rispetto agli spazi della stampa nel passato.

 

Dunque iniziamo dall’Ansa.

“Può un gol di rapina entrare nella leggenda? Sì, se nasconde anche una grande dose di furbizia. E il mito di una grande squadra come l'Inter di Helenio Herrera. Joaquin Peirò, scomparso a Madrid, è rimasto nell'immaginario collettivo soprattutto per una rete, quella segnata il 12 maggio 1965 nella semifinale di ritorno di Coppa dei Campioni contro il Liverpool. A San Siro l'Inter allenata da HH si trovò a dover ribaltare il 3-1 dell'andata: Corso portò avanti i nerazzurri, ma non sarebbe bastato. Dopo 9' Tommy Lawrence, portiere dei Reds, anticipò proprio Peirò in uscita con una spallata e si ritrovò col pallone in mano, pronto al rinvio. Ma non si accorse di Peirò, rimasto alle sue spalle, con in testa l'idea della ''rapina'': al terzo palleggio, lo spagnolo rubò il pallone al portiere, segnando il 2-0 a porta vuota. Un gol che ha consegnato Peirò alla leggenda, una rete decisiva per la rimonta (completata da Facchetti) contro gli inglesi che aprì all'Inter le porte della finale, dove Mazzola e compagni sconfissero poi il Benfica grazie a Jair.

Un gol che anche la società nerazzurra, nel suo messaggio di cordoglio, ha voluto ricordare: ''Il suo nome rimane impresso nella storia nerazzurra, come il suo indimenticabile gol segnato contro il Liverpool. Fc Internazionale Milano esprime il proprio cordoglio per la sua scomparsa, alla famiglia vanno il pensiero e l'affetto di tutto il Club e dei tifosi nerazzurri''.

 

Nato a Madrid nel 1936, Peirò esplose con la maglia dell'Atletico, sbarcando in Italia al Torino (1962-1964) e passando poi all'Inter. In nerazzurro divenne bomber di coppa, dato che in campionato potevano giocare solo due stranieri ed Herrera non rinunciava quasi mai a Jair e Suarez. Il centravanti spagnolo, tuttavia, non è stato solo il protagonista di quel gol storico al Liverpool né soltanto uno dei numeri 9 (con Milani e Domenghini) della storica filastrocca Sarti-Burgnich-Facchetti, ma fu protagonista in tutta la seconda cavalcata europea e mondiale della grande Inter del Mago: nel 1964/65 segnò una doppietta contro il Rangers Glasgow, poi il primo gol nel 3-0 in Coppa Intercontinentale contro l'Independiente, infine altri tre gol tra Dinamo Bucarest e Ferencvaros nella stagione seguente. Il suo palmares in nerazzurro parla di due scudetti, due coppe Intercontinentali e una coppa dei Campioni con 16 gol in 47 presenze. Nel 1966 passò alla Roma (che lo ha ricordato con un messaggio sui social), diventandone anche il capitano dopo l'arrivo di Helenio Herrera nel 1968 e vincendo la coppa Italia nel ’69 con quattro gol in sei partite, prima del ritiro nel 1970. In Spagna lo definiscono ''uno dei più grandi di sempre'', anche se con la nazionale fu poco fortunato, non venne convocato per gli Europei del 1964, vinti proprio dalla Spagna. Da allenatore, guidò il il “suo”, poi Murcia, Badajoz e soprattutto il Malaga, con cui ottenne la promozione in Liga nel 1998/99: lo portò anche in Europa per la prima volta, conquistando l'Intertoto nel 2002/03 e raggiungendo i quarti di finale in Uefa.

 

Nello sfoglio, online, valorizziamo per una volta il Qs, ovvero l’inserto sportivo del Qn, pubblicato in Emilia Romagna, Marche e a Rovigo a Il Resto del Carlino, in Toscana e Umbria da La Nazione e in Lombardia da Il Giorno, con alcune edizioni in edicola magari in province vicine a questi territori. Vale sempre la pena guardare tutti i giornali, come raccomandava Gianfranco Civolani, il mitico giornalista di Bologna, perchè da Leo Turrini apprendiamo un bel titolo. 

“Genio Peirò, ispirò anche «Luci a San Siro». Roberto Vecchioni ne trasse quella notte la famosa canzone. L’interpretazione del volto di Sky è come sempre eccentrica.

Ieri se ne è andato il calciatore che in una notte lontana, in un tempo felice oggi nemmeno purtroppo immaginabile!, prolungò oltre il limite “Carosello”, il breve, geniale spettacolo Rai che accompagnava a letto i bambini d’Italia. Joaquin Peirò, attaccante spagnolo dell’Inter euro mondiale di Helenio Herrera, si è spento a 84 anni di età. Non era un fuoriclasse, ma un buon calciatore sì. E il 12 maggio del 1965 fu proprio lui a cambiare le abitudini di chi portava ancora i calzoni corti. Quella sera, a San Siro, l’Inter detentrice della Coppa dei Campioni era chiamata ad una impresa (quasi) impossibile. Semifinale di ritorno della più prestigiosa competizione europea. A Liverpool, contro i Red Devils, all’andata i nerazzurri erano stati sconfitti 3-1. Non esisteva ancora la regola del gol in trasferta che vale doppio. Dunque, a Mazzola e compagni serviva un clamoroso 3-0 per ribaltare la situazione. 

Qui interveniamo noi per puntualizzare che all’epoca in caso di parità non c’erano i supplementare nè i rigori ma era previsto uno spareggio in campo neutro, dunque il 2-0 avrebbe portato l’Inter alla ripetizione del match.

 

Ancora Leonildo Turrini, allora.

Alla vigilia, quel matto di Helenio Herrera, il Mago, aveva garantito che non ci sarebbe stato problema. Sembrava una “fake news” ma milioni d’italiani se la bevvero. Allora, non esisteva ancora il tifo “contro”: eravamo, io immagino!, un Paese non ancora avvelenato. Di sicuro, migliore di oggi. Sia come sia, milioni di bambini quel 12 maggio 1965 chiesero a mamma e papà di non andare a letto dopo Carosello. Volevano vedere l’Inter, riconoscendosi nella telecronaca affannata di Nicolò Carosio. A me fu accordato il permesso. E così, come in un sogno in bianco e nero, ammirai la trasformazione del centravanti Peirò in una sorta di onirica anticipazione di Harry Potter, l’eroe dei prodigi a fin di bene. L’Inter era andata in vantaggio grazie ad una diabolica punizione di Mariolino Corso. Poi, fu come se Carosello fosse ricominciato di colpo, nella notte di San Siro. Clemence, il portiere del Liverpool, aveva la palla in mano. La sbatteva sul terreno giusto per guadagnare tempo. Ma Peirò, con la astuzia di un mercante levantino, allungò un piede, spostò la sfera e segnò il più incredibile dei gol. Gli inglesi, furibondi, ulularono allo scandalo: invece era tutto regolare e più tardi il 3-0 di Facchetti trasformò San Siro in un Carosello di gioia (l’Inter poi rivinse l’antenata della Champions, superando in finale il Benfica di Eusebio). E questa storia, la storia di Peirò, ha una coda. Quella notte Roberto Vecchioni, cantautore agli inizi, pensò «Luci a San Siro», indimenticabile brano d’amore e di vita, di rimpianti e di malinconie, poi pubblicato nel 1971. Merito, di nuovo, di Joaquin Peirò”.

Puntualizziamo qui, per non rovinare la buona lettura, come c’era scritto in chiesa, negli anni ’70 e ’80, a proposito delle offerte per la stampa cattolica. In realtà il portiere era Lawrence, non Ray Clemence, noto negli anni ’70 come alter ego di Peter Shilton. Ai reds sarebbe arrivato due anni dopo, è assonante con Lawrence, associazioni mentali fallaci che a noi capitano da anni.

 

Buona è anche la lettura de Il Giornale, con Tony Damascelli.

“Ottantaquattro anni, una vita e una carriera raccolti in 5 secondi, la sera del 12 di maggio del Sessantacinque, stadio di San Siro, Inter-Liverpool, semifinale di coppa dei campioni, rimessa laterale di Corso, colpo di testa di Peirò, palla a Mazzola che rilancia perfettamente lo spagnolo, Joaquin entra in contatto con il portiere Lawrence che, in uscita, lo spintona a terra. Peirò si rialza, attende, come un rapinatore, un levriero dicevano a Madrid, che l'inglese faccia rimbalzare il pallone, una, due volte, alla terza, gli spunta di fianco, gli ruba la palla con il sinistro e di interno destro, a giro, la calcia in porta. Rivolta inutile dei rossi di Liverpool, l'arbitro Ortiz de Mendebille (in realtà de Mendibil, ndr), compatriota di Joaquin e di Luis Suarez, rimette la palla al centro, gol e basta. 

Se ne è andata ieri mattina un'altra fetta grande del calcio nerazzurro e non soltanto. Joaquin Peirò, l'ala infernale come lo chiamavano in Spagna, aveva legato il suo cognome a quello scippo magistrale. Ma il suo football era anche dribbling secco e tiro astuto. Si era rivelato prima al Murcia, poi, come leggenda, all'Atletico di Madrid, conquistando la coppa delle coppe nella doppia finale contro la Fiorentina, segnando in entrambe. Il Torino lo pagò 250 milioni di lire. In granata Joaquin restò una sola stagione. Lo agganciò Italo Allodi e incominciò la grande avventura all'Inter di Moratti ed Herrera, una coppa dei campioni, due scudetti, due coppe intercontinentali.

Aveva un solo difetto, Joaquin: era educato, molto, forse troppo, nulla aveva dello spagnolo da corrida, provocatore e irritante, era un professionista silenzioso, l'epoca non prevedeva l'impiego disordinato degli stranieri ma limitava l'uso a due per formazione in campionato, dunque lui in tribuna per lasciare il posto a Suarez e Jair. Ma in coppa il trio era completo e vincente. Fu così prima di una crisi che gli suggerì di spedire moglie e figlia in Spagna, il ruolo di riserva lo deprimeva, Herrera e Allodi gli fecero cambiare idea, arrivò il secondo scudetto e poi ci fù la Roma, ancora con Herrera, finalmente titolare, gol e fascia di capitano e la coppa Italia. Arrivò la semifinale di coppa delle coppe contro il Gornik, pari all'andata e nel ritorno a Katowice, spareggio sul neutro a Strasburgo, ancora pari, supplementari, niente rigori, monetina, Joaquin da sempre sceglieva «testa», così avrebbe fatto quella sera francese ma Herrera strillò «cruz» croce. Peirò fu costretto a cambiare scelta, la monetina cadde sul prato, «testa». Vinse il Gornik. Aveva occhi malinconici, Peirò, anche la voce sembrava un sussurro, al telefono, qualche tempo fa, quando aveva risposto, sorpreso, come sempre, con quel tono garbato, quasi scusandosi di avere dimenticato qualche parola di italiano ma non la memoria dolce di un Paese che gli aveva regalato gloria, denari e quella notte milanese di maggio. Hasta siempre Joaquin”.

Anche qui aspettiamo la fine per un paio di puntualizzazioni. Le stagioni al Torino furono due, ci fidiamo di wikipedia, con 10 gol in 46 gare. E poi il Gornik, probabilmente Zabrze, comunque è squadra polacca, giusto per aiutare a capire.

 

Apertura di pagina sul Qn, taglio basso ne Il Giornale, titolo principale della terza pagina di sport su Il Corriere della Sera. Qui la firma è di Carlo Baroni, già capocronista per Milano ad Avvenire e oggi con lo stesso incarico al Corrierone. Sul quotidiano cattolico ogni tanto firmava nello sport, negli anni ’90, sulle pagine lombarde intervista personaggi di quel calcio. Leggiamo il ricordo dell’iberico.

“Non erano in tanti. Ci voleva coraggio. Peggio, incoscienza. Non c’era nessuna Var a proteggere gli stinchi. I calci te li prendevi e te li tenevi. Solo i campioni veri tenevano abbassati i calzettoni. Sivori e Corso, per esempio. O i brocchi. Joaquin Peirò non era né l’uno, né l’altro. Ma i calzettoni li teneva giù lo stesso.

Se n’è andato in un giorno di quasi primavera, il 18 marzo. Quando il mondo aveva la testa altrove. Come quando lui usciva dal campo e non c’erano applausi o fischi. Tutti i tifosi a stropicciarsi gli occhi per i suoi compagni. Quelli della Grande Inter. Che a pensarci forse, senza di lui sarebbe stata un po’ meno grande. Gli bastò un gol per mettere in cornice la carriera. Come quegli scrittori che scrivono solo un libro di successo e poi si nascondono in qualche posto sperduto. Il gol di Peirò lo ricordano tutti. Persino quelli che non c’erano.

La serata era giusta, l’impresa inevitabile: 12 maggio 1965, stadio di San Siro. Coppa dei campioni.Semifinale. L’Inter deve rimontare tre gol al Liverpool, che otto giorni prima ha vinto 3-1. Sono quelle volte che la gente ci crede senza sapere perché. Per accendere la miccia della remuntada, dopo il gol di Corso, ci voleva un colpo di genio. Il portiere Lawrence fa rimbalzare la palla prima di rinviarla. Uno, due e alla terza volta il piede svelto di Peirò gliela porta via e segna a porta vuota. Il giocatore inglese è prima inebetito, poi incredulo. Infine impazzito. Protesta con tutta la squadra. Ma non c’è fallo e non c’è inganno. L’Inter dopo Herrera ha trovato un altro mago in campo. ...

I giovani uomini che quella sera erano allo stadio racconteranno mille volte ai figli di quel gol d’astuzia. E i bimbi lo replicheranno nelle partitelle all’oratorio. Fare il Peirò era figo per quei ragazzini che vivevano di sogni e pallone. Sandro Mazzola ricorda anche le trasgressione di quello spagnolo apparentemente triste. «Con lui – rivela – facevamo ogni tanto una fuga. Herrera, infatti, in ritiro ci concedeva pochissimo, sul bere poi era inflessibile. Al massimo potevamo concederci un bicchiere di vino durante il pasto. Così Peirò veniva da me e mi diceva: “Cervesiña?” (birretta?). E fuggivamo insieme per una bevutina segreta».

Peirò era lo straniero di riserva. Chiuso da Jair e Suarez. Con la sua aria dinoccolata e la faccia da spagnolo triste/indolente. Solo 25 partite con l’Inter ma quanti trionfi. Una meteora che illuminò a giorno il cielo nerazzurro. E disputò anche i Mondiali del 1962 con le Furie Rosse. Ma sono quasi dettagli per chi la leggenda l’aveva scritta in una notte sola”.

 

Occhieggiamo Avvenire, che in genere su questi personaggi romanza, stavolta la scelta è di un collonnino, di agenzia. Titolo in basso a due colonne anche per Libero, che aveva impostato la passante di sport senza ovviamente considerare la notizia della morte, arrivata peraltro verso le 15, ieri.

Saltiamo di proposito i tre quotidiani sportivi, perchè poi la tentazione sarebbe di riportare le paginate di tutti.

 

Resta Repubblica e qui l’apertura è premiante, con un disegno a colore, vecchia maniera, da periodici anni ’70, da Calcio illustrato o Intrepido o da almanacco. Sei disegni colorati, memorabili, certamente da un’idea di Francesco Saverio Intorcia, il capo della redazione sportiva. La firma è la prima, in alternanza al totem Gianni Mura. E’ Maurizio Crosetti e anche qui c’è solo una passante, di sport, per il Coronavirus.

“È morto Peiró, ed è come se al primo verso della Divina Commedia qualcuno levasse la parola “cammin”, oppure “vita”. O forse, quel lago di Como senza più il ramo. Provate a finirla adesso, la filastrocca. Provate a dire d’un fiato Jair, Mazzola, Peiró, Suarez, Corso, JairMazzolaPeiróSuarezCorso. Senza Peiró è una casa senza finestra, è la Madonna senza il velo celeste.

Il verso correva veloce nella sua chiusura, così si leggono le formazioni leggendarie e si recitano a memoria, quasi in apnea, accelerando come quando il centravanti vede la porta. E lui, Joaquín Peiró, era il centravanti della Grande Inter. Fu breve ma intenso il passaggio della sua stella. Tutto è stato veloce, in lui. Il suo gioco di saetta, la sua progressione sui 30 metri («Mai visto niente di simile», ricorda Mazzola), le due sole stagioni in nerazzurro, ma soprattutto quel gol al Liverpool, il suo gol con una magia concepita in sei secondi appena, ma dentro c’era una vita intera.

In semifinale di Coppa dei Campioni l’Inter doveva rimontare il 3-1 di Anfield e quelli erano i Reds formidabili di Bill Shankly. Dopo otto minuti scende morbida su San Siro la foglia morta di Mariolino Corso, punizione fatata, uno a zero. Palla al centro, la riprende subito l’Inter e Mazzola lancia lungo Peiró sulla sinistra, dove lo scozzese Lawrence arriva un attimo prima, abbranca la palla e manda a terra Peiró con una spallata. Qui cominciano i sei secondi che rovesciano il destino. Nei primi due, quel furbacchione di Tommy Lawrence comincia a palleggiare mentre Joaquín si rialza e accende la scintilla dell’idea: rubare quel pallone. Terzo e quarto secondo, il portiere fa rimbalzare ancora una volta la palla a terra ma Peiró allunga il piede sinistro, ruba il tempo, spezza l’attimo e completa lo scippo perfetto. Quinto secondo, la palla passa sul destro. Sesto secondo, la porta è vuota, il piede è di stoffa fina, il colpo è d’interno. Quelli del Liverpool vogliono mangiarsi l’arbitro spagnolo Ortiz de Mendebil (con la i, in mezzo, non la e, ndr) ma è tempo perso. Oggi un gol del genere non sarebbe mai convalidato: la palla appartiene al portiere anche mentre la fa rimbalzare, non può essere contrastato. Allora invece Peiró si infilò nell’azione e, in un certo senso, nel regolamento lasco. A quel punto, la partita scivola felice verso il 3-0, nientemeno che di Facchetti al 17’ del secondo tempo. La rimonta sarà compiuta e l’Inter potrà aspettare il Benfica di Eusebio nel proprio stadio: 1-0 sotto la tempesta, rete di Jair, la Coppa dei Campioni resta dov’era, visto che l’Internazionale l’aveva già vinta l’anno prima al Prater di Vienna contro il Real Madrid. Lawrence, invece, è scomparso nel 2018 a 77 anni. Nel 2015 un cronista della Bbc durante un servizio lo scambiò per un semplice tifoso del Liverpool: «Senta, lei ricorda il derby con l’Everton del ’67?». «Me lo ricordo sì, ero in porta nel Liverpool!». «Davvero? Scusi, mi ricorda il suo nome?». Il video in rete conta milioni di visualizzazioni.

Un gol con tutta una vita dentro: quella di Peiró fu radiosa e timida. Ragazzo prodigio all’Atletico Madrid, poi l’arrivo al Torino con lampi di classe e momenti di scoramento, il suo limite era la debolezza del carattere. Ma Helenio Herrera lo volle con sé e non solo per questioni di hispanidad. All’Inter furono due scudetti, la Coppa dei Campioni, due Intercontinentali ma anche la fatica degli spazi stretti, della concorrenza feroce di Jair e Suarez, altro intreccio spagnolo, e in campionato c’era spazio solo per due stranieri. Joaquín era simpatico, ogni tanto fuggiva con Mazzola dal ritiro per farsi insieme una birretta, il pubblico lo amava ma lui si sentiva precario, sempre nell’incertezza e così alla fine passò alla Roma, dove nel 1969 vincerà una Coppa Italia segnando un gol talmente bello al Foggia da obbligare tutti i suoi avversari ad applaudirlo mentre lui se ne tornava a centrocampo. Di quell’applauso, nel silenzio di questi giorni assurdi, sembra ancora di sentire l’eco”.

Qui chiosiamo per dire che noi siamo abitualmente come quel cronista inglese, intervistiamo sportivi anche di primo piano, seguendo molte discipline, senza riconoscerli, senza associare il viso alla loro storia, che invece ci accende la fantasia. Come il Liverpool, la squadra più redditizia della storia, nel rapporto finali vinte su finali disputate, nella storia delle coppe, nel mondo.I terzini erano Lawrel e Moran, mediano Yeats, i centrali Smith e Stevenson. Ala destra Callaghan (che ci dice qualcosa), poi Thompson, Strong, St. John e Hunt. Andiamo a vedere la rosa dell’Inghilterra campione del mondo, l’anno dopo. Ecco dove avevamo sentito, di Callaghan, e anche di Hunt, un po’. Comunque, è il calcio mito. Che magari porterà i nostri lettori più nostalgici e motivati a controllare La Stampa e Il Messaggero, a caccia di altri necrologi struggenti. Come quel calcio, come quelle coppe.

 

Vanni Zagnoli

 

19.03.20