Il pallone racconta: Marco Osio

I cinquant’anni dell’ex “sindaco” di Parma

Oggi, mercoledì 13 gennaio, compie 50 anni Marco Osio, l’ex “sindaco” di Parma, uno dei giocatori più amati della tifoseria di riferimento, tra gli artefici del boom crociato, nei primi anni ’90. Da bambino era tifoso della Juve, poi passò al Toro e divenne sostenitore granata, con l’esordio in A nel febbraio dell’84.
“Allenatore era Eugenio Bersellini” - ricorda – “c’erano i campioni del mondo Franco Selvaggi e Beppe Dossena e l’attaccante austriaco Walter Schachner. E poi Renato Copparoni in porta. Non avevo neanche fatto un allenamento, con la prima squadra, fu una sorpresa enorme. Vivevamo tutti in un collegio-pensione, arrivò una telefonata la domenica mattina: non ero stato convocato per il ritiro, avevamo un unico telefono con cui rispondere, mi svegliò un compagno, avvisandomi della chiamata del mister. C’erano state defezioni, ero impreparato anche solo psicologicamente, eppure debuttai, a 20’ dalla fine”.

A chi si ispirava, all’epoca?
“Il mito era Renato Zaccarelli, anconetano come me. Speravo di intraprendere la sua carriera, per portare il nome della mia città in Serie A e l’ho fatto. Erano molto professionali, allora, c’era persino un pizzico di nonnismo, ovvero la massima disciplina, in particolare nei confronti dei giovani che si recavano a fare anche solo gli allenamenti. Il rigore imponeva al ragazzino di restare in silenzio, si subiva la personalità dei campioni e anche questo faceva crescere”.

Nell’86-87 il passaggio all’Empoli in A, con il primo gol contro l’Inter.
“In squadra avevamo Amedeo Carboni, poi a lungo al Valencia e anche collaboratore di Rafa Benitez, all’Inter e al Napoli, e il giovane Eusebio Di Francesco, oggi fra i tecnici più importanti d’Italia, con il Sassuolo. E c’era anche Walter Mazzarri, che per la verità giocava poco. Senza dimenticare Ciccio Baiano, già vice di Corini, al Chievo”.

Come arrivò in Toscana?
“In prestito dal Torino, la squadra era in Serie B. A un pranzo ci ritrovammo in A, grazie al ripescaggio, per le vicende del calcioscommesse, con mancata promozione del Vicenza. Fu un’escalation di emozioni, in una società che lanciava giovani, come Massimo Brambati. La prima partita si disputò al Franchi di Firenze, perché lo stadio Castellani ancora non era a norma: realizzai il primo gol in A nella storia dell’Empoli e anche il mio primo, all’Inter, con annessa prima vittoria. Affrontammo il Milan a Pistoia, in campo neutro, e ne prendemmo 3. All’inizio eravamo pendolari, la domenica, ma il ritorno al Castellani portò alla salvezza”.

Quindi il prestito in Serie B al Parma, inizialmente con Zeman e poi con Nevio Scala, con il gol della promozione alla Reggiana, nel ’90.
“Furono 6 anni complessivi, strepitosi, di cui tre anni in Serie B. La squadra era molto giovane, tanti andavano a fare esperienza, c’erano grosse aspettative. Zeman era fra i tecnici più spregiudicati del calcio italiano, mi divertivo molto in campo, non altrettanto in allenamento. La preparazione fisica peraltro era eccessiva, avevamo spianato alcuni gradoni, a forza di saltare sulle tribune, e anche le salite. E poi i mille metri erano pesanti, si partiva per farli 6 volte, ma arrivavamo anche a 12 o a 15”.

Il boemo fu esonerato dopo due mesi, arrivò il compianto Giampietro Vitali.
“Con il quale ci salvammo senza grossi patemi, idem l’anno successivo. Finché arrivò Nevio Scala con il suo 3-5-2 innovativo, per l’epoca. Portò una ventata di novità, ci trovammo al posto giusto nel momento giusto, creando una squadra modello, con cui arrivammo al top d’Europa. Nella primavera del ’90, con la morte del presidente Ernesto Ceresini, si verificò un grosso calo, non riuscivamo più a essere la formazione sbarazzina del girone d’andata. Entrò però la Parmalat e agevolò le nostre imprese”.

Al debutto in A, i gialloblù persero in casa contro la Juve di Maifredi, gol di Napoli a metà primo tempo, raddoppio di Baggio su rigore; chiuse un rigore di Melli quasi allo scadere.
“Entusiasmo comunque alle stelle, per noi, che difatti all’Olimpico con la Lazio portammo a casa un brillante 0-0. E alla terza l’impresa, la prima, vera nella storia crociata in Serie A”.
 
Minuto 64, cross da destra del mancino De Marco (ex Reggina, poi gravemente infortunato e allora soppiantato da Antonio Benarrivo) e Marco Osio in tuffo batté Giovanni Galli.
“Una grande soddisfazione. L’Italia scoprì la favola che sappiamo, fu in quella domenica di settembre, di 26 anni fa che sbocciò l’isola felice”.

Il Paese usciva dal terzo posto al mondiale di Italia ‘90, la classifica di quella stagione fu stupefacente. Lo scudetto andò alla Sampdoria con 51 punti in 34 giornate (c’erano 18 squadre), Inter e Milan chiusero a 46, il Genoa fu quarto a 40, mentre il Parma chiuse a 38, con il Torino.
“Naturalmente la vittoria era premiata con 2 punti e non 3. Fu il miglior anno per il calcio ligure. Il Parma si qualificò per la Coppa Uefa e fu il vero miracolo di Scala, con Sandro Melli, team manager sino alla scorsa stagione, settimo fra i cannonieri con 13 reti”.

Presidente era Giorgio Pedraneschi, dg Giambattista Pastorello, in porta c’era Taffarel, con vice Marco Ferrari. C’erano anche molti comprimari: il regista Tarcisio Catanese (20 presenze), Stefano Cuoghi (29), Marco De Marco (8), il terzino destro Cornelio Donati (25). Gambaro fu sempre presente, Brolin (7 reti) e Grun, Minotti e Apolloni quasi.
“E poi ci fu spazio anche per l’ex milanista Graziano Mannari, per il mediano Aldo Monza, per il 19enne Stefano Rossini e per l’ex Licata Sorce”.

Naturalmente il perno di tutto era Daniele Zoratto, oggi vice ct dell’Italia Under 16. Fu quel giorno che il calcio italiano si innamorò di Marco Osio, visibile non solo per i lunghi capelli e la grande potenza.
“Fu una grande emozione, la prima grande che cadde per mano del Parma in Serie A. Indimenticabile. Io arrivai in prestito dal Torino, fui talmente amato che mi ribattezzarono sindaco”.

E perché?
“Il Tardini era insufficiente per l’entusiasmo, si parlava addirittura di uno stadio a metà con Reggio Emilia, il primo cittadino dell’epoca, Mara Colla, non risolveva la situazione e qualcuno dalla curva ebbe quella pensata di esporre lo striscione Osio sindaco. Da allora sono ricordato così, ma in tante città d’Italia”.

Il primo trofeo fu la Coppa Italia del ’92.
“Ai danni della Juve dei pluricampioni, dal potenziale esagerato. Venivamo dalla qualificazione Uefa, della stagione precedente. All’andata perdemmo 1-0 a Torino, pur disputando una grandissima gara, risolse Roberto Baggio. Mi divorai un gol clamoroso nel finale, al rientro a Parma promisi ai compagni di fargli vincere la coppa, andò veramente così. Il ritorno fu straordinario, con il vantaggio di Sandro Melli e il mio raddoppio”.

Nel ’92-’93 arrivò la Coppa delle Coppe, contro i belgi dell’Anversa, a Wembley.
“Ormai non eravamo più una sorpresa, si era veramente lanciati verso il grande calcio”.

Nel ’93 passò al Torino.
“Al posto di Vincenzino Scifo. Ero nel mirino anche di Juve e Milan e persino del Monaco, allenato da Arsene Wenger, dal ’96 poi sulla panchina dell’Arsenal. Il principe Alberto faceva parte dell’organigramma e allora optò proprio per Scifo, belga di origine siciliana”.

Marco Osio tornava alla casa madre, eppure si infortunò più volte e così disputò appena 27 partite in 2 stagioni.
“Rimanevo nell’ambito europeo, perché all’epoca il Toro raggiunse i quarti di Coppa delle Coppe. Ebbi infortuni molto gravi, che mi ostacolarono, operazioni alla tibia, al perone e alla caviglia, ero sempre dentro e fuori dagli ospedali”.

Allora emigrò nel Palmeiras, fu il primo italiano in Brasile, come poi Francesca Piccinini nel volley.
“Trovai Cafu e Rivaldo, poi campioni del mondo e milanisti. Ricordo una delegazione del Parma arrivata per acquistarli, ma Cafu optò per la Spagna, andò al Real Saragozza. Fu Rivaldo il più vicino alla maglia gialloblù”.

All’epoca vigeva ancora il parametro, se ne liberò per andarsene il Sudamerica.
“Tutti sceglievano l’Inghilterra, la Spagna o la Francia, a me il Brasile sembrava il massimo. Feci un anno magnifico, vincemmo il campionato paulista con uno scarto esagerato, conobbi una nuova lingua, usi e costumi locali. Mi aiutò il centrocampista Amaral, poi al Parma”.

Rientrò in Italia ma in Serie C1, al Saronno.
“Trovai difficoltà a ricollocarmi, perché chi andava all’estero era considerato a fine carriera, eppure io avevo appena 30 anni. Nessuno conosceva le mie condizioni, peraltro stavo bene. Ci fu il contatto con il presidente Enrico Preziosi, poi al Como e da un decennio al Genoa. Ritrovai il parmense Eugenio Bersellini dt e in panchina Mario Beretta, oggi responsabile del settore giovanile del Cagliari. Arrivammo quinti, perdendo la semifinale playoff con il Carpi, adesso in Serie A. Fu un campionato strepitoso”.

Poi la parentesi con altri biancazzurri, al Faenza di Giancarlo Minardi, con il miglior piazzamento anche nella storia di quella società, in C2. E i suoi 8 gol, il record personale di reti.
“Era anche proprietario della scuderia di Formula uno. Vinse il campionato di Serie D, con me ci salvammo alla penultima giornata, in C2”.

Chiuse la carriera con i Crociati Parma, da allenatore iniziò nel Brescello, come vice del cremasco Adriano Cadregari.
“Che mi ha lasciato qualcosa in più di tutti. Mi volle come collaboratore, fu lui a iscrivermi al corso da tecnico, voleva che facessi la carriera insieme a lui. Ci dividemmo presto, però mi ha lasciato una bella eredità”.

A chi altri si ispira?
“Amo il 4-3-3 di Zeman. Di certo ho imparato anche da Scala e da Emiliano Mondonico”.

E’ stato persino nella Serie D marchigiana, alla Pergolese, nel 2006.
“Ma sempre con grande entusiasmo, anche in quella piccola società, nell’entroterra di Fano. A Pergola si producono ottime visciole. Ho guidato anche l’Aosta, in D, ho sempre messo la faccia in tutte le cose che faccio. Anche in Lega Pro, l’ultima esperienza è stata al Rimini, devi sempre dimostrare, perché neanche la bravura paga”.

Lei era discusso, per la barba e quella chioma lunga, fintamente trasandata.
“Non sono mai stato attento al look, era frutto del caso. Non ho creato il personaggio ad hoc, nasce tutto dal piacere di avere i capelli lunghi, quando nei primi anni ’90 facevano tagliare anche la barba incolta. Me ne sono sempre sbattuto, ero me stesso”.

Come festeggia il mezzo secolo di vita?
“Con pochi amici, a cena, niente ex compagni”.

Per lei cos’è il calcio?
“E’ sempre stato un gioco e un divertimento, ci sono anche cose molto più importanti. Mi piace essere schietto, a volte occorre saper tacere, senza andare mai allo scontro con i presidenti. A me piace essere sempre chiaro, da allenatore magari ti scontri, anche con i dirigenti, e questo dà fastidio, però mi tengo il mio carattere. La prestazione peraltro dev’essere massimale, occorre sempre uscire a testa alta”.

L’ultima esperienza è stata a Rimini…
“Adesso sono a spasso, si fa sempre più fatica, perché a parte la Serie A e la B subentrano altri interessi e non c’è programmazione. La meritocrazia incide poco: ho vinto un campionato, mi sono salvato con squadre non all’altezza, sono retrocesso e ho subito esoneri, come tanti. Persino Mourinho viene licenziato… Capita a tutti, insomma. Però ho sempre voglia di allenare”.

Vanni Zagnoli

13.01.16